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28 ottobre 2008 Nicholas Humphrey: La necessità della coscienza
«Cosa succede quando guardiamo una luce rossa che ci colpisce? Rosseggiamo». È una sensazione, una reazione a uno stimolo alla quale a volte nemmeno poniamo attenzione, e della quale sicuramente non si accorge chi ci sta intorno. «Ma non è sempre stato così», spiega Nicholas Humphrey nella Lectio Magistralis tenuta al Festival della Scienza lunedì 27 ottobre. «Un tempo questa reazione era esteriore, visibile a tutti. Poi, in seguito a processi evolutivi, si è interiorizzata».
L’intervento di Humphrey, docente del Centre for Philosophy of Natural and Social Science alla London School of Economics, è una vertiginosa rincorsa alla definizione del concetto di coscienza partendo da quello di sensazione e giungendo a una definitiva affermazione della “necessità della coscienza”. Il percorso verso l’interiorizzazione delle sensazioni (dalla reazione fisiologica a quella virtuale) nel quale Humphrey accompagna il pubblico è costellato dalle citazioni di filosofi, psicologi, artisti e poeti, che vanno a comporre un’indagine nella quale – come sosteneva Sherlock Holmes - «quando avete eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità».
Questa verità, alla quale Humphrey tende, è che non può esistere lo zombie umano, ovvero l’essere che manca di esperienza cosciente. Resta da definire cos’è la coscienza. Secondo il funzionalista Jerry Fodor, la coscienza rende l’uomo capace di fare qualcosa che altrimenti non sarebbe capace di fare, è un valore aggiunto, ma Humphrey ribalta questa definizione: «forse la coscienza ci fa solo desiderare di fare qualcosa per cui altrimenti non proveremmo interesse». La consapevolezza, infatti, rende la vita più interessante da essere vissuta: «Noi godiamo dell’essere fenomenicamente consapevoli».
Ma come può questa joie de vivre – che il filosofo evoca attraverso le parole di Camus, Keats e Byron – avere funzione adattativa? Ovvero, come è successo che il piacere della sensazione, dell’essere consapevoli, ha sviluppato l’istinto di sopravvivenza? Rispondere a questa domanda significa capire qual è lo scopo biologico delle sensazioni fenomeniche, ovvero spostare la ricerca dal campo della filosofia e della psicologia a quello delle scienze naturali.
Per farlo, Humphrey prende ancora una volta spunto da un poeta, Rilke, che evidenzia come forse le cose che ci circondano (e quindi le sensazioni che ci suscitano) ricevano una forza che di per sé non hanno proprio dal fatto di interagire con noi. Whitehead sostiene che l’uomo dà alla natura un credito che dovrebbe dedicare a se stesso, alla sua mente meravigliosa e Humphrey arriva a sintetizzare la caratteristica psicologica della sensazione fenomenica: «Tutto riguarda me, è mio». In sostanza, la sensazione fenomenica porta ad avere una consapevolezza di sé, riaffermando la propria esistenza e la centralità dell'io. «Oscar Wilde diceva che lo scopo della vita è l’autosviluppo: amare se stessi è l’inizio di un amore che durerà tutta la vita. Penso che in fondo avesse ragione», spiega Humphrey, che nota come «possa esserci qualche vantaggio biologico a essere fortemente centrati su se stessi».
L’amore per sé porta infatti l’uomo a migliorarsi e, in qualche modo, a diventare un’isola. «Nessuna mente può avere un interesse verso l’”io” del prossimo come verso il proprio. Ognuno è al centro della propria esistenza ed è un fulcro creativo di coscienza: siamo una società di esseri unici», spiega Humphrey, affermando che per vivere in un mondo di persone questo sentirsi unici è necessario. È quella che il filosofo definisce “nicchia dell’anima”, il territorio biologico e culturale che si è aperto all’uomo nel momento in cui ha iniziato a pensare a sé come a un essere spirituale. Un territorio precluso allo zombie umano, che rappresenta di per sé una contraddizione in termini, «perché chi non ha coscienza fenomenica », conclude Humphrey, «non raggiunge la condizione umana».
Genova, 28 ottobre 2008
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